Burn out

Mi son concessa qualche giorno di pausa perché rasentavo il burn out. Stavo per essere incenerita dalla mie stesse passioni lavorative, entrata ormai in un circolo vizioso in cui bisognava fare di più, ancora di più, molto di più.

Mi sembra di essere in balia di un lungo intervallo di tempo in cui non riesco a concludere nulla di quello che inizio, tutto un fabbricare pentole senza avere i mezzi di creare il coperchio. Cerco di non infierire su me stessa però ho una forte sindrome dell’impostore, mi do le colpe per non essere abbastanza forte per reggere tutto.

Io li vedo i miei limiti, molto bene. Però ho deciso di agire lo stesso, a mio rischio e pericolo, perché alla fine autocensurarsi continuamente non porta davvero a nulla. Ma non so se riuscirò mai a portare a compimento almeno un quarto di quello che mi prefiggo.

Nel contempo mi dico che sto finalmente riuscendo ad aprire il cassetto in cui ero intrappolata. Non sono perfetta, non sono competente quanto vorrei ma almeno ho uno spiraglio di occasioni.

Alla situazione di tre anni fa non ci tornerei indietro, manco per sogno. Avanti centellinando le forze, il cammino è lungo prima di vedere segni di riuscita.

Cesura

Curiosamente ogni fine d’anno funziona perfettamente come cesura fra un tempo e un altro: si passano in rassegna i propri sogni come soldatini, si vede quelli che son diventati stretti, o si son sporcati, o son diventati lontani e impossibili.

Il filtro si basa sempre su quello che sei riuscito a ottenere nell’anno. Temevo fosse un anno perso, visto tutto quello che avevo investito senza ricevere abbastanza riscontri, o risultati. Eppure, tre giorni prima della fine dell’anno, quando già disperavo in una pozza di sogni inconsistenti, qualche risultato si è fatto vedere. Ed è un germoglio di risultato, da coltivare e far fiorire pazientemente, va dunque dato spazio al germoglio, ossigeno, aria buona, acqua e nutrienti.

Per cui si da una potata ai sogni irrealizzabili per mettere qualche speranza concreta. Un po’ mi è costato, tagliare un sogno che pensavo fosse viabile, perché ci ho creduto a lungo, ma tra le persone che dovevano concorrere a realizzarlo c’era una persona tossica con cui, solo ad averci a che fare, sentivo lo stomaco che mi si stringeva come un pugno.

Perché alla fine, quando non basta l’intelletto, ti affidi allo stomaco e all’intestino per scegliere. E poi non voglio andare contro il mio corpo per le scelte importanti. Il corpo è bravo a boicottare le scelte che non condivide.

Continuo la mia vita riscoprendo me stessa e le mie possibilità. Sento di avere iniziato un percorso, ma per vedere crescere alti i frutti del mio lavoro dovrò sapere aspettare anni, come un coltivatore di bambù.

C’è sempre una strada nuova da percorrere, anche a cinquant’anni.

Buona strada a tutti voi.

La misura della felicità

Ognuno misura la propria felicità in modo diverso: c’è chi conta viaggi fatti, ristoranti visitati, amici ritrovati, io ormai conto i progetti che faccio. Anche se magari non andranno in porto tutti costituiscono il mio condimento, rendono sapida la vita con il mio fantastico compagno e con i figli, mi riempiono gli occhi di stelle e le notti di sogni.

Ce li ho tutti i miei progetti, anche quelli di diventare imprenditore e creare un sacco di posti di lavoro con le mie balzane idee. Non so se riuscirò a dare loro forma e a farli diventare reali, ma ci lavoro ogni santo giorno quando torno dall’ufficio. Sono il mio universo parallelo, il mio altrove, su cui ogni tanto si apre una finestrella e parlo con delle persone dall’altro capo dell’Atlantico, che si muovono in universi veloci, che creano nuovi scenari a ogni soffio di vento.

Ce li ho tutti i miei progetti e son meglio della droga o della crema antirughe. O della passione corporea.

Ce li ho tutti i miei progetti e con la mente creo città invisibili su altri pianeti.

Chiamatemi pure Dottor Manhattan.

Risvegli

Fai un corso internazionale molto lungo, assorbente, adrenalinico, con contatti con i principali produttori dell’ambiente, impari a presentarti, proporti, vinci un premio ad una gara (doppio) che ti convince che puoi contare sulle tue brillanti idee per fare impresa, creare qualcosa di nuovo con una squadra internazionale fatta di alcuni elementi molto validi e altri alquanto opportunisti.

Poi cala il sipario sul corso, la bolla si sgonfia, ti ritrovi impantanata nelle solite lentezze lavorative, la solita assenza di sbocchi. Come dicevano i Pink Floyd, the dream is gone, il sogno è andato via, però io non sono diventata confortevolmente insensibile. E’ grave, dottore? Ero drogata di grandi sensazioni, ora tutta questa stasi mi uccide lentamente.

Aspetto gli ulteriori sviluppi come un soldato in un forte abbandonato, un ufologo che attende invano il contatto con gli extraterrestri. Per due mesi non camminavo, fluttuavo a venti centimetri da terra, ora la gravità mi richiama e mi schiaccia verso il basso.

La verità è che anche se sono in buona compagnia mi sento orfana della comunità internazionale virtuale a cui mi sentivo di appartenere, la mia babele linguistica comunicante nell’idioma di Albione. Il vuoto pesa e non mi rassegno che sia stato solo un sogno.

Fino al prossimo vacillare

Ed il vento passava sul mio collo di pelle sintetica e sulla mia persona, sempre curva a scrivere progetti, seguire corsi, collezionare attestati. Pochi momenti di tregua garantiti nella giornata, quando accompagno a scuola la mia saltante ottenne, la mia Papurika Hana Ga Saitara, parole che cantiamo insieme nella strada che porta dal parcheggio improvvisato alla piazza antistante il plesso, quando sorbisco il cappuccino nel bar vicino a casa insieme al mio compagno, quando chiacchiero nella lingua di Albione nelle sessioni di conversazione pagata che mi infliggo ogni santo fine settimana.

Non ho ancora risultati eclatanti da mostrare al mondo, eppure accidenti se lavoro. Tanto, tantissimo, per riuscire a fare passi avanti, per cercare un giorno di costruire qualcosa che resista al vento alla pioggia al lupo cattivo. Cara mia Papurika, costruisci sempre ogni giorno un pezzettino alla volta e anche se ti crolla tutto capisci gli errori e ricomincia senza stufarti. Perché all’inizio non correvo neanche per mezza palestra, sfiancata e col fiatone e alla fine mi son presa una cintura nera, non mollando quando quelli con più talento lasciavano.

Alcune volte son stanchissima.

Però penso a quanto mi annoiavo prima, stacco due quadrati di cioccolato e continuo. Fino al prossimo vacillare.

Tripitaka

I fiori gialli ormai invadono la campagna, macchie vive sui cespugli, acetoselle nel ciglio della strada, tarassaco in campi abbandonati, mimose, ginestre. Nel frattempo ho attraversato il COVID con febbre alta, linfonodi a palla e passo leggero e ne sono uscita, circondata da un mare di asintomatici. Non oso pensare cosa sarebbe arrivato senza le tre dosi, vecchia ragazza fragile che non sono altra. Però quel che fa la differenza è traversare mille vicende col passo leggero, senza soffermarsi troppo.

E’ un periodo con molti impegni e altrettante occasioni lavorative, chi si ferma è perduto, sarebbe davvero bello avere la facoltà di deformare il tempo e lo spazio per dedicare a ogni situazione il giusto impegno. Per ora non ci è dato. Allora si lavora per minimizzare i danni, cercando di dare una sgrossata alle questioni perché perfetti non si può essere, ma ciarlatani neanche.

E’ come se mi avessero invitato a seguire un arcobaleno per cercare la pentola d’oro. E ci fosse il bianconiglio che ogni tanto compare per ammonire “E’ tardi, è tardi.” E’ tanto bello cercare pentole d’oro ma devo riuscire a farlo in fretta. Ci riuscirò? Sarò adeguata? Però bisogna cercare di fare cose mai fatte prima per sentirsi vivi. Anche se gli altri spesso dicono che le pentole d’oro non esistono, o che sono troppo vecchia per crederci.

Ma chi sono io in questa missione, povero umano a voler correr dietro agli dei. Sarò il monaco Tripitaka. La strada è lunga e voglio percorrerla passo dopo passo.

.

Nessun dolore

Mi è stato offerto recentemente il posto di coordinatore del gruppo. Non amo particolarmente gestire persone ma ho accettato, forte della grande parabola vista in The Office :”se non accetti il posto potrebbe averlo qualcuno più incompetente o che impedisce ogni iniziativa sensata”. Nel profondo mi interrogo se ognuno sale nella gerarchia fino al suo livello massimo di incompetenza. Ma ci voglio tentare, mi sto preparando duramente e mi piacerebbe portare nuovi progetti e nuova linfa nella realtà in cui lavoro. Cercherò di dare il massimo.

Contemporaneamente è stato messo in pensione il mio ex-capo, colui dal cui gruppo sono uscita circa un anno fa. E’ stato un pensionamento in sordina, contro il suo volere, per superati limiti d’età. E’una persona brillante con cui avevo perso contatto già da vari anni, penso si fosse disinteressato del resto per lavorare solo con la sua collaboratrice più stretta. Nessun senso più di gruppo di lavoro, tutto gestito in camera caritatis, una propensione alla vanità notevole, tutto doveva orbitare intorno a lui e implementare esattamente il volere suo e della sua esecutrice. Quel che rimaneva era manovalanza e nulla più. Nelle due o tre volte in cui mi ha ascoltato siamo riusciti a creare qualcosa, ma poi tutto si impantanava, se non sentiva bisogno del passaggio successivo per fare evolvere il lavoro tutto rimaneva congelato come un castello di ghiaccio. Penso che, oltre qualche momento esaltante e la paga per tanti anni, negli ultimi anni il suo sia stato un apporto di mortificazione, disperazione e disincanto. Per cui non provo niente, nessun dolore, e me ne dispiace pure.

L’oscuro mondo della ricerca

Da vari giorni sento pareri contrastanti su Montaigner, biologo che ha ricevuto il premio Nobel, noto per la sua grande scoperta e per affermazioni controverse su questioni che non erano esattamente al centro delle sue ricerche.

Vorrei sfatare il mito del Nobel onniscente, appunto perché ne ho conosciuto uno.

Un Nobel, come molte persone brillanti nel mondo della ricerca, ha qualche idea favolosa, qualche buona e molte idee deludenti da cui, pur mettendoci fior di persone brillanti a lavorarci sopra, non uscirà nulla di nulla. Per fortuna un Nobel dispone di tante risorse in termini di manodopera nel mondo della ricerca, per cui fior di giovani talenti e meno giovani vengono impiegati per fare uscire il meglio da quei germogli di idea. Alcune volte quelle idee sono diamanti grezzi: si otterranno risultati favolosi e il Nobel verrà giustamente incensato, spesso molto meno i suoi collaboratori che hanno fatto uscire allo scoperto il diamante. Spesso le idee non erano così roboanti, alcune volte sono strade non viabili. Se va bene i collaboratori riescono a stracciare varie pubblicazioni insieme al Nobel, molte meritatissime ma alcune stiracchiate su idee non luminose ma con le citazioni giuste. Nel peggior caso le giovani risorse si disperano, vanno altrove in diversi gruppi di ricerca, partono lontano, si mettono a lavorare per l’industria o come insegnanti. Come biasimarli, anche se hanno investito tanto del loro tempo e ingegno talvolta un’idea di cacca ha solo la funzione di concime: si disperano e prima o poi, davanti a tanta inutilità, mollano.

Ma voi direte: comunque le pubblicazioni scientifiche hanno una revisione fatta da pari, se un’idea non porta a nulla non dovrebbe essere degna di pubblicazione e viceversa le idee brillanti dovrebbero risalire il flusso ed emergere anche se non hanno un padrino d’eccezione. Non è sempre così.

Ci sono tesi di dottorato in cui i membri della commissione, in primo luogo, controllano se i propri lavori sono stati cospicuamente citati prima di dare un avallo ai contenuti della tesi. A certi livelli ciò che conta in misura non trascurabile il traffico di influenze costituito dalla citazione dei propri lavori di ricerca, uno degli indicatori della metrica di successo di un ricercatore. Ci sono comunità fondate sul dogma di un professorone e chiunque cerchi di pubblicare al di fuori dal coro deve blindare il proprio lavoro con padrini autorevoli per non essere cestinato.

Ci sono narcisi che si innamorano delle proprie formule che hanno scritto per creare un modello di un comportamento che vedono in una collezione di misure e poi negli anni le dogmatizzano per credere che la realtà è costituita da quelle formule e tutto ciò che non è preso in conto non è dato dall’incompleta rappresentazione della realtà, ma da un colpevole errore di misura o di implementazione fatto dai propri sottoposti. Per fortuna il mondo è pieno di gruppi di lavoro e si può sempre scegliere di mettere le cose in una valigia e cercare qualcosa che premi le proprie capacità altrove.

Insomma un Nobel è una persona che ha dimostrato fiuto, genialità costanza o l’esistenza di ottimi collaboratori in una nicchia strettissima della scienza. Da qui a confermare l’attendibilità di ogni loro affermazione anche al di fuori del proprio tema di ricerca ce ne passa, oh se ce ne passa!

Soffitto di cristallo

Si sente che arriva il mezzo secolo: me lo ricorda il social più amato dai quarantenni e oltre che mi propone minuscoli adesivi per simulare una giovanilissima piega della palpebra in un drappeggio di pelle cadente, me lo rimembrano le sequenze di face yoga che appaiono nelle pubblicità mirate per gruppo d’età, me lo suggeriscono tutti gli integratori di collagene, qu-dieci e principi miracolosi che ammiccano negli spazi promozionali.

Me lo sto facendo il mazzo, ogni singolo giorno, per riuscire a chiudere il lavoro e iniziare a sfondare il soffitto di cristallo: andare lavorativamente dove prima era precluso, mettere a segno un colpo che i miei precedenti capi non mi avrebbero mai lasciato fare. Sto studiando e lavorando, tanto, da mane a sera e alcune volte a notte inoltrata. Durante il weekend poi si apre la finestrella del corso di lingue e anche lì cerco di migliorare. Il sabato mi perdo nella musicalità del parlato del coltissimo insegnante di Boston, prendo appunti ligia, crepitio di dita sulla tastiera del portatile. La domenica mi impongo la chiacchierata al buio nella lingua di Albione. Ogni volta vario, estraggo un nuovo tutor tra quelli che sembrano interessanti nei brevi video di presentazione. La giovane londinese, il canadese cresciuto a New York, la sudafricana esperta in inglese lavorativo, poi la trentenne di Vancouver vissuta in Vietnam. Vario perché voglio sentire cadenze diverse, correzioni differenti, argomenti nuovi. Solo con alcuni ho subito il gelo del non sapere cosa dire dopo i primi convenevoli, guardando di sottecchi l’orologio per sapere quanto manca. Altre volte è stato fusionale, qualcuno di loro mi ha dedicato qualche minuto in più oltre la lezione perché la conversazione era genuinamente interessante. Mi rendo conto che trovare affinità in qualcosa con chi è dall’altra parte dello schermo è bello, evita la processione di banalità che mettiamo in scena per occupare il vuoto. Sarò onesta, anche mettere in scena la banalità in questo momento mi è utile, quando utilizzo un idioma che non è il mio devo imparare tutte le forme di comunicazione convenzionale, anche quelle per far fronte ai momenti noiosi. Però se il discorso ti cattura tutto è davvero più spontaneo.

Ma vi prego, ditemelo come si sfonda questo soffitto di cristallo. La testa la sto usando parecchio ma mi viene il dubbio che si faccia prima a craniate.

Di lezioni di inglese

Da un anno a questa parte, a causa del cambio di lavoro e della formazione continua di alto impatto che mi sono imposta a ritmi spartani, l’inglese ha riassunto una parte importante nella mia vita. Ho deciso di puntarci molto per non cadere nelle solite magre figure degli italiani che cercano collaborazioni interessanti altrove. Sul mio livello C1 di venticinque anni fa erano cresciute così tante ragnatele che, nonostante la sera mi imponga la visione di serie televisive in lingua inglese, avevo quasi paura di aprir bocca. Sullo stretto vocabolario tecnico-scientifico continuavo a cavicchiarmela, ma bastava uscir fuori dal campo semantico abituale per iniziare a balbettare e fare inversioni a U in piena frase per non far menzione delle lunghe perifrasi quando non ricordavo una parola.

Il paziente è grave dottore, bisogna andare in rianimazione.

La rianimazione del mio inglese è iniziata ai corsi aziendali. M’hanno messo un livello sotto il mio (che colpo per l’orgoglio) e ho ricominciato a fare le parti di grammatica che già conoscevo. L’inglese aziendale è come il pesce congelato, ti sfama ma non vieni deliziato. L’insegnante era strepitoso, davvero bravo, per cui ho soprasseduto agli sbadigli della grammatica per concentrarmi sul migliorare quando aprivo bocca. Al termine del corso aziendale sono passata all’iscrizione presso una scuola di inglese del capoluogo, la stessa che gestiva i corsi aziendali, per non seguire in remoto e non perdere il mitico insegnante. Sono stati mesi molto belli, il docente era sempre sul pezzo, nel caro prezzo del corso erano incluse ore di conversazione in gruppo nonché il ‘book time’ dove si recitavano parti di libri. Diciamo la verità, mi son divertita tantissimo a interpretare le sfuriate di Heathcliff o le opere di Shakespeare. Poi il mitico docente si è nebulizzato per giusta causa (ha trovato un lavoro migliore) e ho finito le ultime tre lezioni con una docente di cui sentivo gli errori in inglese. Mi son fatta due conti della serva, frequentare un corso frontale decisamente caro per fare solo grammatica e transigere sulla conversazione non fa per me, soprattutto perché mi serve acquisire una certa naturalezza nel parlato.

Ho salutato la scuola del capoluogo e ritirato l’ultimo attestato plastificato che potrei usare come tovaglietta da tè. Mi sono iscritta nel conosciuto social network delle lezioni di lingua e più volte alla settimana provo un brivido di piacere quando si apre una finestrella e vedo una persona dell’altro capo del mondo, uomo o donna poco importa, che mi guida in una conversazione nella lingua di Albione. Così stando in pigiama viaggio per mezz’ora alla volta.