Le nubi si addensano, tempo di monsone

Anche noi abbiamo il nostro piccolo monsone al tempo dei festeggiamenti del santo locale. Dopo una iniziale esplosione di primavera in cui anche i gatti avevano iniziato a sfilarsi la pelliccia, è arrivato il vento e poi le nubi hanno iniziato a addensarsi grigie e spesse, facendo ciao ai fiori di pesco albicocco e ciliegio sputati sui rami, alle tenere foglie verdi, al polline lanoso dei pioppi bianchi che svolazza nella via che porta al mare.

Incredibile ma vero, le mie vicende sono in fase. Dopo un primo periodo di espansione lavorativa che sembrava prolifico e faceva pensare a una crescita stabile, l’arrivo forse di un finanziamento e altre dinamiche di corte che non conosco mi hanno reso invisa a varie persone. Gente che di botto non saluta e schiuma alle spalle lamentando le mie scarse qualifiche, gente a cui non mi è sembrato nuocere direttamente in alcun modo perché, con lavoro assiduo, stavo cercando di portare progetti e attività nella nostra piccola organizzazione. Ho rimuginato su cosa posso aver fatto loro, non riesco a trovare un singolo punto a loro avverso.

Spero che arrivi la pioggia liberatoria e spazzi via l’amaro e la polvere, lavi l’aria, lavi la sabbia del deserto portata dai venti del sud, lavi le coscienze, pulisca la visione, liberi il pensiero e riporti un po’ di entusiasmo, con l’acqua o con il sole.

Caro 2024

Caro 2024,

ti scrivo ringraziando l’anno che è appena passato, che ha chiuso molte spirali che sembravano non voler serrarsi mai. Prima fra tutte ha fornito le giuste etichette a quel ragazzone scomposto e acutissimo in settori molto di nicchia che è il nostro secondo figlio. Lievemente dislessico, Aspie, ma almeno sa chi è e non si sforza di piacere agli altri, sopporta sapientemente il suo intestino perennemente infiammato, ha finalmente diritto al dieci percento in più di tempo nelle prove scritte per esprimere con ordine e senza bloccarsi il suo flusso logicissimo di pensieri che difficilmente si piega a compromessi. L’anno che è appena passato ha anche fatto chiudere una spirale lavorativa che durava due anni, aprendo altre occasioni, facendomi traversare l’oceano per ciò che lavorativamente sembrava fosse amore, ma che ora di pancia temo sia un calesse.

A te che arrivi chiedo di moltiplicare il tempo, la tenacia e le risorse per buttarmi nelle mie missioni lavorative impossibili. Ti chiedo lo stesso calore familiare che mi ha avvolto nel 2023 e che mi ha sostenuto in momenti in cui venti ore di lavoro al giorno non bastavano.

Ti chiedo di essere clemente con i miei dolci vegliardi, che molto lentamente perdono i pezzi della logica che li contraddistingueva e si azzannano a vicenda condannando gli errori dell’altro. Ti chiedo di sciogliere la loro critica insofferenza in dolce menefreghismo, perché la cosa realmente importante è stare accanto a novant’anni e tenersi la mano quando serve.

Ti chiedo leggerezza per il mio geniale primogenito perché non si accusi di errori che inevitabilmente capitano per stanchezza; ti chiedo stimoli e qualche amicizia che viva alle stesse frequenze per la mia esuberante ragazzina dagli occhiali rosa, che ha fame di persone coetanee che interagiscano con le sue scoperte e le sue deduzioni.

Ti chiedo trionfi professionali per il mio compagno, che ha tanto investito su dei progetti e si spera che vengano approvati. Ti chiedo riconoscimento delle sue eccellenti qualità, lui che spesso è perla di fiume nascosta ai più.

Ti chiedo speranza per il mondo. Per quanto possibile.

Transito aeroportuale

L’ecosistema delle sale d’attesa degli aeroporti in transito offre parecchi spunti di riflessione.

E’ la prima volta che mi fermano dei carabinieri, chiedendomi quanti soldi ho con me e se devo dichiararne. Ho controllato, hanno fermato me e solo me, a campione. Si, sono vestita meno peggio del solito, ma non ostento marche. Ho la tintura fatta di nuovo, per la prima volta dalla parrucchiera perché ero stufa di dover smacchiare la vasca da bagno, i polsi, i vestiti neri vecchi, l’anima e non so cos’altro. Indosso un cappotto rosso. Forse sono troppo mediterranea. Non so.

Mi trovo accanto a un distributore automatico di mutande da uomo che mi sembra l’idea più brillante dell’intero aeroporto.

I corridoi sono bianchi e luminosi, altra impressione rispetto a quando li bazzicavo dieci anni fa. Accanto al bar monumentale che ostenta la marca famosa delle metropoli vicina c’è un brasilian-giapponese presso cui ho preso una ceviche minuscola ma buona. Ormai il glutine non lo reggo più, il riso mi fa addormentare di schianto e le fibre dell’insalata mi piegano in due come uno StarTac d’annata, sono pure felice di avere trovato un’opzione cara ma mangiabile.

Il mondo degli aeroporti è freddo, non riesco a concentrarmi sul lavoro. Digito qualcosa al laptop, origlio conversazioni in lingue differenti e cerco di calcolare la provenienza. Del semplice farsi i fatti degli altri dietro l’apparenza finto-professionale.

Non c’è un negozio che venda salvaslip. Tutti profumi balocchi merletti ma non ci è concesso essere umane imperfette.

Per andare in bagno è consigliabile seguire le tracce dell’ultimo passaggio della dipendente dell’azienda di pulizia. Alla fine non ci sarà la pentola d’oro ma un bagno immacolato senza tracce di utilizzatori che lasciano il vaso ingombro.

Ogni volta che vedo un bimbo piccino mi si stringe il cuore a pensare le ore d’attesa in sale analoghe con i miei pargoli e a tutti i miei sforzi per non far pesare loro il tempo lentissimo.

Di tanto in tanto mi fa ritornare sul pianeta l’ululato sommesso del macinino per chicchi di caffè del bar vicino.

Esiste il momento fatale il cui la rete wifi dell’aeroporto non ti fa vedere più nulla.

Oltreoceano

La città in questione ha una baia grande e piena di barche, di navi di ogni dimensione. A un lembo della baia spiccano quartieri alti di belle ville, nell’altro il porto, la città con i suoi palazzi alti con alcune cuspidi dorate, pareti vetrate, qualche falso galeone che vuole apparire del millesettecento, tanti impianti sportivi nel frontemare, una passeggiata pavimentata di assi in legno.

Tutti, ma proprio tutti hanno le macchine grandi. I furgoni da lavoro hanno dettagli in ottone e scritte con caratteri che ti aspettavi nella diligenza del film western. La città è tranquilla, pochissimi senzatetto apparenti, una sapiente interpolazione di Europa e degli Stati Uniti che vedi nei film. I tombini della metropolitana emettono vapori che si condensano, sembrano smunte colonne di fumo nel bel mezzo della strada.

Nell’hotel lo spazio è sfruttato al millimetro. Ho una camera microscopica ma non sembra tale, fuori dalla finestra le scale antincendio. L’accento delle persone è anche quello sapiente interpolazione, tranne qualche vocale allargata in posti che non ti aspetti, harbour che suona HABBA. Il piatto del posto è una vellutata spessa e pannosa a base di crostacei, mi ci tufferei e ci farei quattro bracciate.

Le porzioni sono grandi o grandissime solo in alcuni posti. Ho imparato a schivare l’espresso come la morte e la mattina mi trovo una tazzona di caffellatte al latte di mandorla e un biscottone all’avena buono che è grande come una ruota di carro. Nei locali passano ogni tanto a rabboccarti il bicchiere con acqua ghiacciata.

Il parco è bellissimo, ti perdi nel verde. Ogni tanto attraversi fazzoletti di terra pieni di lapidi dove gli scoiattoli fanno parkour. Camminare per smaltire il jet lag, camminare tanto, perdersi e ritrovarsi mentre barche con le ruote piene di turisti attraversano i viali della città.

In farmacia vendono gli ombrelli, i cerotti per i piedi, ogni possibile medicinale o integratore a forma di caramella gommosa. A China town i negozi sono carissimi.

Il quartiere italiano è a nord, vicino alla baia. Hanno festoni fatti con i fili glitterati dell’albero di natale, c’è una processione che rispetto alle nostre va al doppio della velocità. Le strade piene, le borse ispezionate affinché nessuno porti agli. La strada odora di aglio e olio e peperoncino fatto con un’intera testa d’aglio. Tutti i manicaretti italiani hanno un moltiplicatore due, in taglia, in intensità, in colori. Sembra che sia un universo amplificato su tutto.

La televisione la notte trasmette alcune televendite che metto per conciliare il sonno. Il canale meteo è spettacolare, ti fa la lista di tutte le temperature reali e percepite degli aeroporti più minuscoli, girando il globo attorno ai vari stati a stelle e strisce della costa est.

A lavoro tutti i giovani hanno responsabilità e fanno cose incredibili e tutto va veloce.

I laboratori sono ordinati e sbrilluccicano, sono palazzoni enormi pieni di apparecchiature incredibili.

Nel fiume verde sfilano canoe, barche. Accanto dei prati verdi tenuti benissimo. C’è anche una parte del fiume piena di ninfee. Pare che ci sia un robottino che raccoglie le plastiche, però non l’ho visto.

Il vento dell’oceano raffresca e in giacca si sta bene.

L’aeroporto è sporchino, fatichi a trovare sedili non sbriciolati. Hanno apparecchiature bellissime per velocizzare il controllo passaporti e bagagli a mano. Però ti devi togliere le scarpe per passare il portale che ti scannerizza.

L’aereo vola sulla baia e i palazzi alti brillano nel sole.

Agosto ha giorni belli

Agosto ha giorni belli in cui tutto trova la sua ideale collocazione, chi splende, chi si rifà una vita piena d’amore, chi dopo anni di lavoro inizia a incassare le prime gratificazioni, chi si gode gli affetti e gli abbracci di marito e figli nel posto del cuore che chiama casa. Non è fantastico? Non è supremo? Assolutamente sì, è un mese che sa di epilogo prima dell’inizio di una nuova storia.

Io lavoro, le dita scorrono frenetiche sui tasti del computer, radiosa. La mia droga migliore è sentirmi amata, sentirmi apprezzata, vedere che inizio a costruire qualcosa e che mi piace immaginare resistente al tempo e alle stagioni. Mancano dieci giorni all’attraversamento dell’Oceano, personalmente non so cosa aspettarmi da questa trasferta lavorativa, da questo nuovo capitolo. Sono felice e tanto mi basta.

Sono venticinque anni che sono legata alla stessa persona, ne abbiamo passate tante, ma sentire la sua pelle rosa compatta sotto le dita e vedere i suoi occhi ilari è la migliore ricompensa. Parafrasando una sua espressione, credo di aver vinto la lotteria per tre volte di seguito.

I figli trovano le loro strade: uno adulto, irrefrenabile punta di diamante, con la laurea di primo livello e un nuovo corso di studi altrove; uno quasi adulto, serio, metodico, pacificato nel suo rapporto con il suo intestino bizzarro e nel pieno della vita da liceale; la terza alla fine del ciclo della scuola elementare, piccolo uragano di talenti diversi, in pieno mutamento tra il suo essere bambina e diventare donna.

Agosto ha giorni di una bellezza accecante, ne prendo nota per ricordarmelo quando ci sarà freddo.

Acquisto negato

Volo oltre Atlantico: scegli andata, scegli ritorno, scegli bagaglio, posti speciali no che costano troppo, assicurazione di viaggio sì, schiaccia invio…. acquisto negato.

Proteggere prenotazione perché serve per lavoro, venticinque euro. Chiamare linea del circuito carta di credito: “No, signora, deve andare in banca a farsi cambiare il limite di spesa giornaliero.”

Prendere auto, fare quaranta chilometri sotto sole accecante in pausa pranzo. Trovare parcheggio in città. Aspettare apertura della banca. Entrare in banca e aspettare impiegato giusto che possa trattare la pratica.

Parlare del problema, sottolineando mille volte che il biglietto deve essere acquistato entro due giorni (scadenza imminente della protezione della prenotazione). Aspettare silente che l’impiegata digiti in fretta novecentocinquanta cose. Firmare nella tavoletta grafica più volte per comunicare che si autorizza col sangue il cambiamento di ammontare massimo giornaliero. Fare presente che si è anche inutilmente tentato di associare il conto al Paipallo per evitare di passare dal limite della carta di debito, perché il codice di conferma non è mai arrivato. Essere tranquillizzati che dovrebbe essere tutto normale e che Paipallo dovrebbe tranquillamente associare il conto. Aspettare che il direttore della filiale autorizzi la pratica. Essere rassicurati del fatto che stasera stessa si potrà effettuare il pagamento. Uscire, riprendere l’auto e rifarsi quaranta chilometri sotto il sole in pausa pranzo estesa.

Fallire nel pagamento, ancora, ancora e ancora.

Poi fare incastrare il sistema di pagamento della compagnia di volo per due giorni. Vivere due giorni appesa in linea telefonica con la compagnia aerea, per sapere che è ancora colpa della carta di credito. Telefonare alla linea dedicata della carta di credito e sapere che in banca hanno sbagliato qualcosa.

Ritelefonare dieci volte alla banca mentre gli impiegati presumibilmente, tutti asserragliati dentro la filiale con glaciale aria condizionata, aspettano di vedere chi tira la stecchetta più corta per rispondere al telefono. Prendersi due riagganci in faccia e un passaggio a interno irreperibile. Provare odio per la musichetta d’attesa.

Ricordarsi miracolosamente del nome di battesimo dell’impiegata per farsi passare qualcuno.

Parlare con l’impiegata che apre un ticket e scopre che la modifica di limite giornaliero è attiva nella prossima carta emessa, non su quella corrente. Peccato che serva addebitare la spesa sulla carta corrente. Essere rassicurata dall’impiegata che potrò fare comunque il pagamento via Paipallo associato al conto corrente, perché è appena arrivato il codice di verifica.

Rinunciare alla prenotazione incastrata perché il sistema cerca ancora di pagare con la carta.

Rifare da zero la prenotazione del volo e pagare con Paipallo associato al conto bancario.

Una settimana dopo trovare Paipallo che cancella l’associazione del conto bancario e mette in debito il profilo per mancato pagamento.

Scoprire che la banca ha rifiutato a Paipallo di pagare il volo.

Fare la trafila telefonica con la banca per chiedere di nuovo dell’impiegata che ha curato la non-pratica. Sentirsi fare la morale sul fatto che però Paipallo aveva necessità del RID per prelevare soldi dal conto (magari dirlo prima eh).

Scrivere a duecentoventicinque chat e bot e messenger di Paipallo per cercare di capire dove sta l’anello mancante.

Mancare gloriosamente tutti gli attimi in cui gli assistenti di Paipallo cercano di contattare perché in ufficio la rete telefonica mobile spesso non funziona.

Farsi mangiare il fegato dai cerbiatti del bosco vicino all’ufficio in zona d’ombra.

In camera iperbarica

Mia mamma è sempre stata lucida, razionale, un intelletto adamantino. Un anno e mezzo fa una sequenza brutta di domino medici l’ha quasi portata via, un guasto multiplo in varie parti e per fortuna un ospedaletto di provincia le ha dato le sacche di sangue necessarie e non l’ha fatta partire coi piedi davanti (perché diciamolo, negli ospedali di città è raro che dedichino risorse ematiche copiose a quasi novantenni). Da allora s’è ripresa parecchio, nonostante molte paturnie che le hanno dato tutti i punti necessari per il cento per cento di invalidità. Ora dentro di lei si alternano due persone: la professoressa di matematica razionale che da punti al marito ricordandosi mille cose e la vecchietta che vede e sente cose dell’altro mondo di cui è convintissima.

Conoscendo il suo essere poco immaginifica e sempre razionale e cartesiana, la sua nuova seconda identità è stata accolta con paura e terrore da mio padre, marito amorevole e ansioso, anche lui quasi novantenne. L’altra persona esposta a siffatta identità sono stata io che, sperando di non fare rendere conto alla madre professoressa di matematica che sta perdendo colpi, minimizzo sempre e costantemente.

Già da poco mi chiedeva del mio figlio maggiore, secondo lei ricoverato in ospedale: “No Ma’, sta facendo esami dell’università, mamma, tranquilla.” “Sicura? Non è che se ne è andato dall’ospedale? Magari è fuggito?” “No, è alla casa dello studente.”

Ma oggi era ancora più ardita: “Ma’, devo andare negli Stati Uniti qualche giorno per lavoro.” “Certo, con quel problema che hai ti tocca viaggiare in camera iperbarica nell’aereo, visto che hai gli intestini fuori.” “No, Ma’, tranquilla, gli aerei di oggi sono pressurizzati.”
Sì, ho la diastasi addominale e dovrei farmi l’addominoplastica un anno o l’altro. Ho anche l’asma. Ma la camera iperbarica stile Michael Jackson per un viaggio di lavoro mai me la sarei aspettata.

E’ triste assistere al declino di una mente sempre ritenuta inossidabile. Però, a tratti, è più creativa degli scenaristi di Netfl*x.

Burn out

Mi son concessa qualche giorno di pausa perché rasentavo il burn out. Stavo per essere incenerita dalla mie stesse passioni lavorative, entrata ormai in un circolo vizioso in cui bisognava fare di più, ancora di più, molto di più.

Mi sembra di essere in balia di un lungo intervallo di tempo in cui non riesco a concludere nulla di quello che inizio, tutto un fabbricare pentole senza avere i mezzi di creare il coperchio. Cerco di non infierire su me stessa però ho una forte sindrome dell’impostore, mi do le colpe per non essere abbastanza forte per reggere tutto.

Io li vedo i miei limiti, molto bene. Però ho deciso di agire lo stesso, a mio rischio e pericolo, perché alla fine autocensurarsi continuamente non porta davvero a nulla. Ma non so se riuscirò mai a portare a compimento almeno un quarto di quello che mi prefiggo.

Nel contempo mi dico che sto finalmente riuscendo ad aprire il cassetto in cui ero intrappolata. Non sono perfetta, non sono competente quanto vorrei ma almeno ho uno spiraglio di occasioni.

Alla situazione di tre anni fa non ci tornerei indietro, manco per sogno. Avanti centellinando le forze, il cammino è lungo prima di vedere segni di riuscita.

Cesura

Curiosamente ogni fine d’anno funziona perfettamente come cesura fra un tempo e un altro: si passano in rassegna i propri sogni come soldatini, si vede quelli che son diventati stretti, o si son sporcati, o son diventati lontani e impossibili.

Il filtro si basa sempre su quello che sei riuscito a ottenere nell’anno. Temevo fosse un anno perso, visto tutto quello che avevo investito senza ricevere abbastanza riscontri, o risultati. Eppure, tre giorni prima della fine dell’anno, quando già disperavo in una pozza di sogni inconsistenti, qualche risultato si è fatto vedere. Ed è un germoglio di risultato, da coltivare e far fiorire pazientemente, va dunque dato spazio al germoglio, ossigeno, aria buona, acqua e nutrienti.

Per cui si da una potata ai sogni irrealizzabili per mettere qualche speranza concreta. Un po’ mi è costato, tagliare un sogno che pensavo fosse viabile, perché ci ho creduto a lungo, ma tra le persone che dovevano concorrere a realizzarlo c’era una persona tossica con cui, solo ad averci a che fare, sentivo lo stomaco che mi si stringeva come un pugno.

Perché alla fine, quando non basta l’intelletto, ti affidi allo stomaco e all’intestino per scegliere. E poi non voglio andare contro il mio corpo per le scelte importanti. Il corpo è bravo a boicottare le scelte che non condivide.

Continuo la mia vita riscoprendo me stessa e le mie possibilità. Sento di avere iniziato un percorso, ma per vedere crescere alti i frutti del mio lavoro dovrò sapere aspettare anni, come un coltivatore di bambù.

C’è sempre una strada nuova da percorrere, anche a cinquant’anni.

Buona strada a tutti voi.

La misura della felicità

Ognuno misura la propria felicità in modo diverso: c’è chi conta viaggi fatti, ristoranti visitati, amici ritrovati, io ormai conto i progetti che faccio. Anche se magari non andranno in porto tutti costituiscono il mio condimento, rendono sapida la vita con il mio fantastico compagno e con i figli, mi riempiono gli occhi di stelle e le notti di sogni.

Ce li ho tutti i miei progetti, anche quelli di diventare imprenditore e creare un sacco di posti di lavoro con le mie balzane idee. Non so se riuscirò a dare loro forma e a farli diventare reali, ma ci lavoro ogni santo giorno quando torno dall’ufficio. Sono il mio universo parallelo, il mio altrove, su cui ogni tanto si apre una finestrella e parlo con delle persone dall’altro capo dell’Atlantico, che si muovono in universi veloci, che creano nuovi scenari a ogni soffio di vento.

Ce li ho tutti i miei progetti e son meglio della droga o della crema antirughe. O della passione corporea.

Ce li ho tutti i miei progetti e con la mente creo città invisibili su altri pianeti.

Chiamatemi pure Dottor Manhattan.