Per chi non lo conoscesse già, il paradosso del gatto di Schrödinger è un esperimento mentale ideato nel 1935 da Erwin Schrödinger, con lo scopo di illustrare come la meccanica quantistica fornisca risultati paradossali se applicata ad un sistema fisico macroscopico. La versione originale del paradosso contempla un gatto chiuso in una scatola dove un meccanismo (col quale il gatto non può ovviamente interferire) può fare o non fare da grilletto all’emissione di un gas velenoso. Per entrambe le situazioni la probabilità è esattamente del 50%. Secondo Schrödinger, visto che è impossibile sapere, prima di aprire la scatola, se il gas sia stato rilasciato o meno, fintanto che la scatola rimane chiusa il gatto si trova in uno stato indeterminato: sia vivo e sia morto. Tralascio in questa sede l’applicazione alla meccanica quantistica, userò l’immagine per descrivere la mia situazione attuale.
Intrappolata in un paradosso simile al gatto di Schrödinger, mia figlia ha la febbricola da quarantacinque giorni e non va a scuola da qualche giorno prima, per l’esattezza dal cinque ottobre. Quel giorno la trattenemmo a casa per un raffreddore: puntando il termoscanner alla sua tempia e leggemmo un timido 36.7, alla vista del nasino colante decidemmo che non valeva la pena di mettere a rischio la sua salute. Infatti l’inverno scorso la nostra bimbetta ebbe numerosi attacchi di laringospasmo e fu campionessa di coltura batterica nelle alte vie aeree, il che le valse due mesi di assenza da scuola e il saggio di due antibiotici diversi.
Piccolo inciso, il nostro pediatra di base è una conoscenza rodata dopo diciotto anni di traversie di figli e dopo quattro anni di ricerca di una diagnosi per il mio secondogenito. Ci stimiamo vicendevolmente, ci mandiamo a quel paese silenziosamente se uno dei due dissente delle conclusioni dell’altro, non è una persona onnisciente e bisogna ripetere alcuni dettagli affinché li prenda sul serio, d’altronde non sono perfetta neanche io, rompiballe come poche anche se cerco di contenermi.
All’inizio di ottobre per la bimba lo scenario fu lo stesso di dicembre scorso: dopo due giorni di febbre alta si palesarono le crisi di laringospasmo e la febbriciattola con valore massimo 38. Il pediatra valutò la situazione e decise di dare un primo antibiotico, la cefalosporina, che aveva portato a risoluzione la laringotracheite della volta passata, del cortisone per attenuare le crisi e il solito contorno di mille aerosol.
Dopo il primo ciclo di farmaci le crisi notturne erano fortunatamente passate e la pargola iniziava ad accettare cibo ma persistevano il rialzo termico con temperatura massima trentotto e la tosse. In più la bimba aveva la saturazione decisamente bassina per cui il pediatra, dopo avere auscultato i polmoni, aggiunse un macrolide alla terapia. Quest’ultimo farmaco, preso per pochi giorni, sembrava pure avere effetti per la tosse delle vie alte. “Toh, guarda.” mi dissi “viene somministrato pure per streptococco aureo.” e sorrisi ricordando lontane vicissitudini del mio secondogenito che aveva parecchio patito per un’infestazione del genere. Finiti i tre giorni di macrolide il rialzo termico c’era sempre, la tosse era calata.
Poi ci fu la fase dell’incredulità. Il medico giunse a casa a visitarla, cosa molto apprezzabile in quanto molto rara, soprattutto di questi tempi. Aveva però in mente di provare il teorema che il mio termometro fosse starato. Peccato che in presenza di febbre mi affidi ogni a due termometri di diversa tecnologia per comprovare le letture. Ha dovuto accettare il fatto che mia figlia avesse ancora febbre.
Siamo quindi entrati in un lungo periodo di settimane in cui il curante al contempo non credeva e credeva che mia figlia avesse il COVID, l’equivalente del gatto di Schrödinger. Per cui l’imperativo categorico era comunicare ogni giorno l’andamento delle temperature, i sintomi e il valore della saturazione, perché il medico doveva valutare se denunciarci all’ATS o meno. Dal canto mio continuavo a riscontrare elementi che mi facevano pensare alla solita minestra, una bella coltura batterica per cui non è molto fruttuoso sparare alla cieca con antibiotici a largo spettro; da piccola a mia volta sono stata soggetta a questi problemi e ne sono uscita con una cura ruggente di due mesi di diaminocillina, il meglio della farmacologia dell’inizio degli anni Ottanta, quelli ancora con la zampa di elefante nei pantaloni. Il brutto di essere sospettata COVID con bassa probabilità ed essere in età pediatrica è che non ti viene proposta alcuna analisi per verificare il contagio, sapendo che l’effettuazione del tampone è un evento abbastanza traumatico per un bambino. Basterebbe però avere un test sierologico “pungidito” per discriminare, con le dovute precauzioni, i casi da sottoporre a ulteriore test coronavirus, ma i curanti sono sprovvisti e buttati a gestire il triage nel completo silenzio dell’ATS. Il peggio è che tutte le altre direzioni di indagine per la ricerca della diagnosi vengono congelate, come per magia. Difficilissimo richiedere qualsiasi accertamento, fossi mai contagioso. La tosse della mia pargola stava nuovamente peggiorando, la febbricola persisteva per cui, per schiodare il pediatra dai suoi dubbi, sono andata a fare io il sierologico e gli ho mostrato l’esito doppio negativo come prova parziale che nel nucleo familiare non c’era stata proliferazione di SARS-COV2.
Nel frattempo, oltre la solita tosse in aumento, si è poi palesato un dolore giusto all’attaccatura della gamba sinistra della mia giovincella. La povera ha cominciato a zoppicare e a lamentarsi per il male all’articolazione. Sarà mica borsite indotta da streptococco aureo? Abbiamo vinto il terzo antibiotico, un’Amoxicillina e Acido Clavulanico forse più adatto alla situazione. Sarà mai streptococco? Risultato delle corse dopo sei giorni: tosse sparita, dolore all’articolazione diminuito. Lascio al termine del primo flacone o raddoppio? Scrivo al pediatra che si da latitante e non risponde, probabilmente stufo del nostro ping-pong. Smetto la somministrazione a fine confezione, dopo quattro giorni mi ripaleso con il curante che mi fa ‘Ah, ma lo doveva continuare!’ Ma che cos’è, la versione medica di ‘Cara ti amo’ di Elio e le Storie Tese? Tutta la mia solidarietà, i pediatri sono sotto pressione, però i tempi per noi stanno diventando lunghi.
L’epilogo è che oggi, dopo cinquanta giorni di malattia della mia bimba, sono riuscita ad ottenere le ricette per analisi cliniche serie. E ne sono sempre più convinta: bisogna essere bravi ad ammalarsi della patologia giusta per i tempi che corrono, mai in opposizione di fase. Altrimenti, visto i paradossi in cui si incorre, vieni inghiottito in imprevedibili loop spaziotemporali.