Campo minato

Ma come si fa nell’Italia post covid a trovare cura per i propri vecchi? Sembra di giocare al campo minato delle installazioni di Windows 95, in questo ospedale non li porto perché non spenderanno due sacche di sangue per far vivere un quasi novantenne, in quest’altro poi per politiche legate alla pandemia non me lo faranno vedere, lo blinderanno all’interno e dopo pochi giorni avrò il mio caro coi piedi davanti e il sacchetto dei suoi averi.

E allora per avere qualcuno di fedele al giuramento di Ippocrate senza troppi lacciuoli imposti dai tagli di budget si va nella provincia italiana, per conoscenze, alla ricerca di un ospedale piccolo ma non chiuso e di un medico per cui il paziente abbia valore. Sono viaggi della speranza, ore di macchina cucite al cuore, in cui comunque vada si cerca di creare bei ricordi che leghino le persone coinvolte nell’impresa. Bisogna dire le parole che fanno diga di contenimento al pessimismo e all’amarezza, inondare di luce il buio anche se dentro ci si sente grigi come la nebbia. Accendere fuochi per riscaldare l’inverno del cuore, sperando di poter aggiungere ore, giorni, mesi in condizione passabile alla vita di chi ci ha generato. Dire “Ma sì, ce la facciamo anche stavolta” anche se in fondo in fondo non ci credi troppo.

Haut les coeurs

Ieri, otto dicembre, sono andata al centro commerciale del capoluogo, in emergenza perché anche stavolta avevo finito le lenti a contatto. Era pieno di persone che ronzavano da tutti gli angoli, in cerca di regali, con famiglie numerose. Le comitive più appariscenti erano gruppi di famiglie amiche provenienti da piccoli paesi, si muovevano in gruppo largo di tutte le età, impermeabili a ciascuna fila, ciascun senso obbligato, sciamavano in tutte le direzioni. Ero in fila al fast food per procacciare il pasto felice (che di felice ha ben poco) richiesto dalla mia bimba, la comitiva si ricongiungeva e riseparava, passava da una cassa all’altra incurante di distanze di sicurezza, di file, di priorità acquisita, si faceva rimbrottare dalle operatrici che cercavano di mantenere un minimo ordine “Signore, deve tenere la fila di quella cassa!” “Scusi sa, ma devo chiedere al mio amico laggiù”. Ho pensato alle volte che, in campagna percorrendo la strada verso la spiaggia, mi facevo sorprendere da un gregge di pecore, moltitudine imprevedibile che sfilava da tutte le parti. L’unico era rimanere fermi e attendere il loro passaggio, evitando di muoversi per non ferire animali, quasi trattenendo il respiro. Ed in testa avevo la canzone di Fauve che martellava, nella scena appena vista nella serie di Zerocalcare, haut les coeurs haut les coeurs haut les coeurs.

Coraggio.

Qualsiasi cosa arrivi, si sta fermi e si attende il passaggio.

Lamentarsi come un Pro

Nei gruppi di lavoro ci sono sempre le figure più disparate.

Ammetto di fare sempre di più la GiovannaD’Arco con tanto di spadone tratto alla conquista delle mete più disperate. Sano attivismo contro il Nulla che avanza. Neverending story dagli esiti incerti, soprattutto perché non mi appare mai l’Infanta imperatrice a comunicarmi che con il mio sacrificio il Nulla è stato sconfitto. Sicuramente il mio è sintomo di un certo narcisismo dopo anni di testa china e rispettare i voleri delle pile di capi. Ognuno ha i suoi difetti.

Ma in un gruppo ben bilanciato c’è anche lui, il Lamentone. Credo sia una figura folkloristica figlia dei tempi e dei luoghi, l’Italia del primo ventennio del millennio appare come luogo ideale per l’epifania di una simile figura. Costui dà fuoco alle sue polveri dopo una lunga riunione di lavoro dove ha fatto il possibile per occultarsi lasciando alla GiovannaD’Arco e agli altri sparuti il compito di reggere tutto. Comportamento coerente peraltro, perché anche lavorativamente pratica l’eclisse e interviene solo a correggere virgole. Gli chiedi cosa fa e lui dice “sto lavorando” e non è mai chiaro su cosa.

Appunto, a riunione finita (o meglio a vertice andato via) blocca lì gli altri in una presa mortale lamentandosi su quanto sia ingeneroso il capo, che non è possibile mettere sotto pressione il gruppo per avere risultati, mezz’ora di doléances vuote e risparmiabili perché alla fine non è lui che porta a casa il risultato. Gli altri si ibernano a sentire i suoi spunti a vuoto, la GiovannaD’Arco ha la vena della fronte che si ingrossa a dismisura ma per mantenere gli equilibri faticosamente creati nel gruppo sta zitta. L’unico modo di risvegliare gli altri dal torpore è dopo mezz’ora esatta sussurrare “si è fatta una certa”, i colleghi reagiscono con un blando “ah sì, il pranzo” e si trova il coraggio di passare al congedo nel ristretto consesso.

Però, sotto sotto, un nutrito gruppo di cellule urla.

Goodbye Hitsuji-do

Nel Settecento in Francia era pieno zeppo di festività religiose, la cui osservanza era fatta rispettare in modo ferreo. Uno dei problemi del terzo stato è che durante queste festività era proibito lavorare, per cui i raccolti stavano a marcire nei campi. La mancata possibilità di intervenire diede luogo a una carestia senza precedenti, il prezzo degli alimentari aumentò senza controllo. Non sorprende affatto che uno dei punti affrontati nell’agenda della rivoluzione fu la riforma del calendario. Allo stesso modo, recenti eventi meteorici hanno portato a trovare la sede di lavoro chiusa per assenza della squadra di sicurezza (è una lunga storia) e tutti messi automaticamente in telelavoro. Il mio rendimento in smart working è una frazione del normale perché non dispongo degli strumenti giusti e tutto è dannatamente complicato. In più, sono stufa di non determinare il mio presente, per cui mi sono offerta volontaria per fare anche squadra di sicurezza, così se gli altri non vogliono assumersi responsabilità lo farò io, sempreché le reali condizioni lo consentono.

Per cui goodbye Hitsuji-do, addio via della pecora che si adatta passivamente. Mi mobilito in prima persona per far funzionare le cose, almen per quello che mi riguarda direttamente. Ne ho abbastanza degli atteggiamenti del non fare ombra, cappello in mano. Prendo responsabilità per non assoggettare il mio operato a persone che ne sanno meno di me e son fiacche, tipi che tentano di arrivare in modo inerte alla pensione cercando di far capo degli altri e spostando virgole anche quando non capiscono quel che stanno leggendo. Faccio controllare il mio lavoro da gente palesemente più brava, ma non chino la testa davanti a colleghi che cercano di mettermi sotto. Che sia l’anno dello spirito indomito, se ostacolate i miei progetti sarò Tempesta.

49

Quest’anno è stato un vero calderone, tutto ha ribollito, molto è cambiato. Ho deciso di non nascondermi, di non appiattirmi per compiacere gli altri, di tirare fuori la mia vera natura.

Esistono rivoluzioni che si fanno e si può veder chiaro attorno a sé chi regge e chi no.

Il lavoro non ha retto per mia scelta_ ho cambiato e sono immensamente più felice. Anche se gli equilibri si modificano velocemente e sono ben lontana dall’ aver trovato un assetto stabile, quel che faccio mi fa brillare gli occhi.

Gli affetti per mia fortuna resistono e il rapporto migliora. Penso che il mio compagno mi abbia sottovalutato per anni e stia correggendo il tiro, come mio padre del resto. Anche io temo di averlo sottovalutato, negli ultimi anni, e corro ai ripari. Però il fatto che mi stia vicino e sostenga le mie evoluzioni e me lo stia provando ogni giorno è raro e prezioso. Non tutte le relazioni sopravvivono a una componente femminile che vuole giocare sullo stesso piano. Per una qualche strana formula, l’assetto prestabilito vuole che l’uomo faccia il brillante della situazione e la compagna sia da proteggere, da schernire gentilmente per le sue questioni femminili e che soprattutto non faccia ombra. Basta stigmatizzare. Basta sentirsi blandita perché “tanto tu non sei all’altezza.” Basta autolimitarmi. Il rapporto con un uomo che resista alla parità è infinitamente più gratificante. Chi sceglie di rimanere accanto a queste condizioni mi merita.

Non so quanto altro dei contatti sociali e degli altri legami resista. Nel frattempo, guardo ciò che succede attorno a me e tiro fuori i popcorn.

Però a me si applica ciò che Peter Pan prescrisse a Campanellino. Per volare bisogna ritrovare i propri pensieri felici. E stavolta volo.

Buoni 49 a me.

Di sorprese

C’è stato un tempo molto lontano in cui ho ricevuto meravigliose sorprese, da far brillare gli occhi anche a distanza di mesi solo al pensarlo. Ne parlavamo l’altro giorno all’ora di conversazione in lingua inglese, preziosa risorsa dei corsi che mi autoinfliggo per avere una certa scioltezza nel lavoro nei contatti con gruppi esteri. Ero molto fortunata, perché una sorpresa va pensata e realizzata con cura e avere qualcuno che pensi qualcosa di speciale per te è già di per sé un grande regalo. Anche io ne facevo tante di sorprese, di regali inaspettati ma personalizzati nei minimi dettagli, era un modo di cercare di far sorridere le persone che amo. Fantasticavo per tanti giorni per cercare lo svolgimento perfetto che portasse alla riuscita migliore, al maggior stupore. Poi cos’è successo… si è inbinariato tutto nell’abitudine. Alla fine l’unica sorpresa a cui potevo aspirare per me stessa era l’armiamoci e partite, il capitale veniva generosamente messo a disposizione ed ero io che organizzavo tutto, anche le sorprese destinate a me.

Tante vicende sono accadute e oramai sono autosufficiente. Mi accontento della piacevole routine offerta dall’armonia familiare e qualche volta ordino qualcosa per me, quasi di nascosto: il taccuino di Go Nagai, le magliette buffe che un tempo adoravo regalare e che ora offro a me stessa. Oh cara, era esattamente quel che volevo. Quasi quasi mi regalerò un’elegantissima rosa a stelo lungo, ho detto più volte in pubblico che mi piacciono, magari io stessa raccolgo il suggerimento.

Però potremmo anche fare la critica in regola a quel che ho appena scritto. Che punto di vista da ragazza viziata! Ma quali sorprese? Le quasi cinquantenni non digeriscono più nulla, impossibile improvvisare un ristorante senza ricordarsi quali sono le intolleranze. Per non parlare di cosa gradiscono, dieci anni prima amavano qualcosa e poi cambiano, senza dire niente. Difficile poi organizzare qualcosa che tenga conto di tutte le particolarità dei figli, troppe cose da gestire, troppe articolazioni da tenere a mente, impossibile sbagliare. L’hai voluta l’emancipazione? Ti piace qualcosa? Compratelo. Anzi no, facciamo così, ti voglio fare un regalo che apprezzi: io metto a disposizione i fondi e lo procuri tu. Semplice, efficace e a prova d’errore. A proposito c’è da chiamare l’idraulico per la revisione della caldaia. Quando lo chiami?

Atto di coraggio

Il mio adolescente sta meglio, sì, sta meglio. Fa la sua dieta rigidissima, prende pastiglie e fa la vita normale di tutti i ragazzi delle superiori che vivono in un paesello, la mattina presto va a prender la corriera, che ancora fa buio pesto. Capita che lo vada a prendere al capoluogo e che passeggi con lui in luoghi che tanti anni fa gli erano familiari. Lui mi dice: “Mi si è ristretta la strada, mi si è ristretto il parco, sembra tutto ridicolmente piccolo. Vorrei di nuovo avere otto anni.”

Otto anni, l’età che la malattia gli ha rubato, in cui abbiamo iniziato a ciondolare per ospedali.

Forse stiamo uscendo dal tunnel: mentre prima la coltre nichilista lo avvolgeva ora inizia a avere progetti per il futuro, vorrebbe specializzarsi nell’informatica al servizio delle protesi e degli organi artificiali. Perché proiettarsi in un futuro possibile, avere idee su cosa si vorrebbe fare, è un grande atto di coraggio. E io con lui ricomincio a sperare, a vedere cieli azzurri oltre le nuvole, a viaggiare nello spazio.

Ma che fine fanno i sogni?

Ma che fine fanno i sogni alla nostra età?

Esistono e resistono. Sono in un luogo della mente dove spazio e tempo collassano, dove le rughe non crescono; vivono la loro vita segreta al riparo degli sguardi altrui, vengono passati in rassegna ogni singolo giorno nei momenti in cui alla mente è concesso di vagare e fantasticare. Stanno lì e non escono in giro, protetti dal confronto con la realtà, dal tarlo della disillusione o dalla arpia della sofferenza. Rimangono perfetti, immortali, non rovinano la vita altrui né la propria. Magari danno gioie che complementano quelle della vita reale fornite dagli affetti e da ciò che si riesce a fare. Sono come un Calcifer che dà energia e fa muovere il castello errante. Qualche volta bruciano come marchi a fuoco, allora ci si soffia sopra e si aspetta che passi. Però nel loro avvicendarsi nella mente danno luce in modo semplice, migliorano il gusto del caffè in solitaria, accompagnano un tramonto e rendono leggeri i silenzi.

Sono una risorsa preziosa che si impara a custodire nel profondo.

Igiene emotiva

In questo periodo sono molto impegnata, però lo stesso cerco di distribuire il tempo in modo da coprire le esigenze di tutta la famiglia. E’ vero, ciò mi rende più sensibile e vulnerabile, soprattutto quando noto che non viene applicato il protocollo di cortesia elementare.

Perché avrei bisogno di questa inutile burocrazia? Per sentire che il mio tempo è stimato e qualcuno percepisce che lo sto dedicando. Per evitare di perdere tempo inutile ad aspettare qualcuno che ha già deciso di andare per la sua strada. Per ritagliare qualche oasi fuggente per me e me sola, invece di chinare sistematicamente la testa se gli altri si dimenticano di me.

Mi dispiace, non riesco più a chinare la testa, ho il torcicollo emotivo.

Ma il torcicollo emotivo può essere salutare, perché tacere e chinare la testa è un po’ morire, per cui meglio sbattere sui denti subito la questione e non rimuginare. Così torna il sereno e tutto diventa più bello. E poi di morire non ne ho voglia, non mi sono mai sentita tanto viva in vita mia.

Fra l’altro, visto il periodo di bruschi cambiamenti del quotidiano, alcune persone che facevano parte del mio mondo sono state trascinate altrove, nella marea della vita. Per altre invece leggo il codice dell’intervallarsi di presenza e assenza, imparo a prevederne l’alternanza, la firma del segnale, come se fosse una sequenza Morse che trasmette gli intenti, le preoccupazioni, i giochi mentali e le priorità.

Mi sono data poche consegne di igiene emotiva per superare tutto questo: do valore a chi mi da valore, scelgo chi mi sceglie, sono impalpabile per chi mi ignora e spietata con chi cerca di mettermi in tasca. Sarò uno specchio, chi è nuvola vedrà nuvole, chi è vento non vedrà immagini comparire, solo il vuoto.

Ho anche posto un termine temporale per cercare di costruire cattedrali dalle mie idee. Una specie di barriera in cui scelgo di praticare il “vedo e rilancio”. Non so se riuscirò a sfondare il soffitto di cristallo per mettere tutto ciò in pratica, però ci sto tentando, mane e sera. Vengo ripagata quotidianamente da questo concentrare tutto sugli obiettivi, sento che ogni giorno non è vano. E con chi mi accompagna la vita è più gustosa.

Sei un tipo

E’ un periodo complicato per il lavoro, devo riuscire a portare a casa il primo risultato concreto del nuovo corso. Nel frattempo ho sempre più corsi da fare e il tempo fugge, vola.

Il fatto incredibile è che inizio a sentire la stima di mio padre nell’ora che gli consacro durante il fine settimana per guidarlo nelle sue interazioni con i computer. Prima era difficile avere un suo apprezzamento di qualsiasi genere. Alle figlie piace sentirsi al centro del mondo, apprezzate dal padre. Penso che tutte le figlie sognino che il padre rivolga loro complimenti. Io chiedevo a mio padre “Sono bella?” sperando che lui, come tutti i padri, dicesse “Per me sei bellissima.” Lui rispondeva: “No, non sei bella. Sei un tipo, puoi piacere a qualcuno.” Era inutile dimostrare che ero brava, se facevo sport mi criticava dicendo che lui ai suoi tempi faceva meglio. Mi sono laureata nella sua disciplina, molto prima di quanto lui abbia fatto, sono stata la più giovane laureata del corso. Quasi non se n’è accorto. Ho anche provato a fare la sua professione, sono durata pochissimo perché mi annoiava a morte. Sono fuggita verso altri ambiti a me più congeniali. Ho anche preso, per mio gusto, la cintura nera in un’arte marziale, ma quasi non la considerava perché il centro del mondo era la cintura arancione che lui aveva preso a judo. Ma ora che ogni settimana pazientemente risolvo le gabbole che lo scontro col mondo informatico moderno produce, quando smettiamo dice a mia mamma “Sai che è proprio brava?” Grazie babbo, era una frase che aspettavo da parecchio.